Il coraggio di dirsi le cose: come nasce una cultura del feedback
- Goffredo Antonelli
- 17 nov
- Tempo di lettura: 2 min

C’è un momento, nella vita di ogni organizzazione, in cui ci si accorge che le persone non stanno più davvero parlando. Le riunioni procedono, i progetti avanzano, gli obiettivi sono chiari, eppure qualcosa si irrigidisce. Le conversazioni diventano formali, gli scambi più rari, i malintesi più frequenti. È il segnale tipico di una cultura del feedback che non circola: non perché manchino le opinioni, ma perché manca lo spazio per condividerle senza timore.
Il feedback non è un giudizio, né un voto annuale. È il principale strumento di connessione organizzativa. Permette alle persone di capirsi, aggiustare la rotta, migliorare, crescere insieme. Ma perché funzioni davvero non basta “dare un feedback ogni tanto”: serve un sistema, un rituale, un modo di lavorare che lo renda naturale.
Costruire una cultura del feedback significa introdurre un processo chiaro e condiviso. Il primo passo è definire un linguaggio comune: cosa intendiamo per feedback? Cosa rientra nello scambio professionale? Quali comportamenti vogliamo incentivare? Parlare di fatti, non di persone; descrivere azioni, non identità. Questa chiarezza iniziale permette di togliere dal feedback quell’aura di giudizio che spesso lo rende difficile.
Il secondo passo è introdurre la continuità. Un feedback efficace è breve, tempestivo e concreto. Non ha bisogno di una riunione formale: può essere una conversazione di cinque minuti dopo una presentazione o alla fine di un progetto. Creare piccoli momenti dedicati — un check settimanale, un confronto post-attività, una domanda rituale come “cosa miglioriamo la prossima volta?” — educa le persone a vedere il feedback come una parte naturale del lavoro, non come un evento straordinario.
Il terzo passo riguarda i leader. Nessuna cultura del feedback può esistere se chi guida non mostra apertura, ascolto e disponibilità a mettersi in discussione. Un leader che chiede feedback prima di darlo, che ringrazia per un’osservazione scomoda, che modella un comportamento rispettoso, crea un messaggio potentissimo: qui il confronto è un valore, non un rischio. Quando i leader lo praticano con coerenza, tutto il team li segue.
“È importante creare un ciclo di feedback continuo: chiedersi sempre cosa si è fatto e come lo si può fare meglio.” - Elon Musk
Infine, serve uno scopo. Ogni feedback deve essere orientato al miglioramento e collegato a un obiettivo concreto. Non serve “dire cosa non va” se manca la direzione verso cui andare. Lo scopo trasforma un commento in un’azione, una critica in una possibilità, un momento difficile in un’opportunità di crescita.
Una cultura del feedback nasce così: da piccoli gesti, rituali semplici, conversazioni frequenti, comportamenti modello e una direzione condivisa. Non è un processo che si costruisce in un giorno, ma un’abitudine che, una volta radicata, cambia la qualità delle relazioni professionali e la maturità organizzativa.
Perché in fondo il feedback non è solo un modo di dire come stanno andando le cose. È un modo di prendersi cura del lavoro, delle persone e della crescita comune. E nelle aziende che funzionano davvero, la cura non è un optional: è una responsabilità condivisa.






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